“Il grande cielo”, la montagna significa guardare e tremare
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Ne “Il grande cielo” di Alberto Rollo (Ponte alle Grazie, pp. 200, euro 16) non c’è quella montagna là – la montagna facilista in voga, la montagna grave di messaggio veritativo, la montagna salvifica, scuola dei buoni e dei saggi, tutta lezioni di vita a uso dello scrittore filosofoide che, al cospetto delle vette, in febbricitante suggestione metaforica, impiatta spicciole Epifanie ad uso di altri suggestionabili. Non c’è nemmeno la montagna da cartolina riflessiva, messa lì a bella posta dal Dio della metafora per baciare chi voglia farne un qualsiasi tipo di bottino. Perché c’è tutt’altro. Tanto per cominciare, un uomo di pianura, un milanese – quel che definiremmo un chiarissimo punto di vista – che aspira al cielo attraverso la montagna: ma quale montagna? Una montagna “non per invettarsi, non per affollarla di cronoscalate”. Un uomo che immagina e ama, esponendosi all’educazione continua di se stesso attraverso l’incontro con ciò che sfugge, in perenne ed elastico moto di andata e ritorno tra infanzia e maturità (la fantasia, e la forza prima dell’emorragia irredimibile del tempo), tra padre e padre (il proprio, Cesare, e quello che Alberto si ritroverà a essere), tra passato e presente (dal Limidario immaginato da ragazzino alla Valsesia di decenni dopo).
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Marco Archetti , 2023-03-04 06:00:00 ,
www.ilfoglio.it