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Il price cap sul petrolio del G7 mette Putin sotto pressione

Il price cap sul petrolio del G7 mette Putin sotto pressione

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L’Europa è alla ricerca di un accordo sul tetto al prezzo del greggio russo. La logica della misura voluta dagli Stati Uniti è ridurre le entrate con cui il Cremlino finanzia la guerra in Ucraina, ma senza togliere i barili russi dal mercato. Secondo gli esperti funzionerà, anche se Cina e India non aderiranno

Come la controffensiva ucraina nelle regioni del Donbas e di Kherson sul terreno militare, così anche sul piano economico si intensifica la pressione occidentale contro la Russia. Il 28 settembre Ursula von der Leyen ha annunciato l’ottavo pacchetto di sanzioni, in cui sono incluse le basi legali per introdurre un price cap sul petrolio russo per i paesi terzi, come concordato a inizio settembre nell’ambio del G7. La trattativa è ancora in corso, e non è semplice, perché si oppongono paesi come Malta, Cipro e soprattutto Grecia che dispongono delle flotte di petroliere che in questi mesi hanno continuato a trasportare greggio russo. Ma con qualche forma di compensazione, si dovrebbe riuscire a chiudere l’accordo.

 

La Grecia era già riuscita a far rimuovere il divieto al trasporto marittimo dal sesto pacchetto di sanzioni, che da dicembre proibisce agli operatori dell’Ue di assicurare e finanziare la vendita di petrolio russo. Stavolta, dovrebbe essere incluso anche il trasporto marittimo, per evitare scappatoie nell’imposizione del price cap. Ma una volta trovato l’accordo, l’Unione europea dovrà anche rivedere le precedenti sanzioni che proibiscono completamente i servizi e l’assicurazione. Perché la logica del price cap, spinto dagli Stati Uniti e in particolare dal segretario al Tesoro Janet Yellen, è diversa da quella del blocco totale. L’obiettivo del tetto proposto dal G7 è quello di ridurre le entrate con cui il Cremlino finanzia la guerra in Ucraina ma senza strozzare l’offerta globale di petrolio, cosa che farebbe aumentare notevolmente il prezzo (come sta accadendo con il gas). Il greggio russo dovrebbe quindi continuare a essere venduto, ma solo al di sotto di una soglia massima di prezzo.

 

Il livello deve ancora essere fissato e Washington spera che venga concordato almeno un mese prima che entri in vigore l’embargo europeo a inizio dicembre. In ogni caso, il tetto del prezzo deve essere fissato in una fascia che si situa sopra il costo marginale di produzione del greggio russo e sotto i prezzi pre-pandemia del petrolio: in questo modo Mosca manterrebbe l’incentivo economico a produrre e vendere, ma con profitti molto più contenuti. Questa fascia, secondo le stime di S&P Global Commodity Insights, sarebbe tra 48 e 55 dollari al barile, poco sopra la metà delle attuali quotazioni del Brent e molto al di sotto del prezzo medio dell’Urals che nel bilancio per il 2023 Mosca prevede a 70 dollari.

 

Il tetto al prezzo non dovrebbe valere per i paesi del G7, che per conto loro attueranno un embargo totale al petrolio russo (a parte qualche marginale esenzione temporanea in Europa per gli oleodotti), ma dovrebbe essere applicato ai paesi terzi attraverso le compagnie di assicurazione e di servizi finanziari del G7 che nel 95% dei casi coprono il trasporto navale di petrolio russo nel mondo. Questo comporterebbe un grande vantaggio economico per gli acquirenti. Secondo un’analisi del Tesoro degli Stati Uniti, citata dal Financial Times, il price cap del G7 potrebbe produrre un risparmio annuale di 160 miliardi di dollari per le 50 maggiori economie emergenti, dall’Africa all’Asia.

 

È proprio lavorando sugli incentivi che Washington intende allargare la coalizione dei paesi aderenti a questa sanzione nei confronti della Russia. Ovviamente ci sono molte incertezze sul successo dell’operazione. In primo luogo, la Russia ha già annunciato che non venderà petrolio ai paesi che imporranno il price cap sulle sue esportazioni, facendo così crollare l’offerta globale. In secondo luogo il meccanismo è difficile da far rispettare e potrebbe essere aggirato attraverso varie scappatoie. Infine diversi paesi come Cina, India e Turchia, che sono i principali acquirenti, non sono intenzionati ad aderire al meccanismo del G7.

 

Sul primo punto, in realtà, Mosca non ha molte leve: bloccare l’export della sua principale fonte di entrate fiscali (il petrolio pesa molto più del gas) non è molto credibile. Peraltro, già il suo bilancio per il 2023 mostra come l’embargo europeo e le difficoltà infrastrutturali (scarsità globale di petroliere, tempi più lunghi di percorrenza, etc.) ridurranno le entrate da oil & gas (dal 42 al 34% del pil) a causa di una contrazione sia della produzione sia dei prezzi. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), a seguito dell’embargo dell’Ue che rappresentava il suo principale mercato, la Russia a febbraio 2023 produrrà 1,9 milioni di barili al giorno in meno rispetto al 2022 (-17%). Quanto all’efficacia di un meccanismo complesso e inedito, non sembrano avere molti dubbi gli esperti: in un sondaggio dell’Igm forum dell’Università di Chicago, che ha interpellato i più affermati economisti del mondo, emerge che per il 69% funzionerà mentre solo l’8% non è d’accordo (il resto è incerto).

 

Infine, pochi hanno dubbi sul fatto che anche i paesi che non aderiranno al tetto del G7, come Cina e India, useranno il price cap come leva negoziale per spuntare sconti maggiori di quelli che già ottengono. D’altronde basta guardare il comportamento in questi giorni di alcuni “amici” di Putin: l’Ungheria di Viktor Orbán ha ottenuto da Gazprom una dilazione dei pagamenti e anche la Turchia di Erdogan ha chiesto di rinviare una parte dei pagamenti sul gas al 2024. Difficile immaginare che gli “amici” interessati di Putin non useranno il price cap per spuntare ulteriori vantaggi economici.



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Il Foglio , 2022-10-05 06:00:00 ,
www.ilfoglio.it

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